Nel 2018 e nel 2019 ricorreva il quarantennale della fondazione dei Cure e quello del loro primo album, Three Imaginary Boys. Robert Smith aveva pensato che fosse cosa buona e giusta pubblicare un disco di inediti, ma poi il progetto è naufragato. Le canzoni c’erano già, erano state scritte tra il 2014 e il 2017, si trattava quasi di una trentina di brani. In pratica, nel 2019 i Cure hanno registrato materiale per tre album che, inizialmente, avrebbero voluto pubblicare a distanza di un paio di mesi l’uno dall’altro. Durante i loro lunghi tour, il gruppo ha più volte suonato alcuni di questi, testando la reazione del pubblico. Tredici stavano particolarmente bene assieme, ma per bilanciare “luce e oscurità”, Smith ne ha sostituiti alcuni e tagliato fuori altri, cesellando così Songs of a Lost World e le sue otto canzoni.
Songs of a Lost World
Era arrivato, così, il periodo del lockdown, quando il cantante poteva godersi un po’ di solitudine e leggere più di cento libri. Ma l’animo malinconico di Smith aveva dovuto fare i conti nel frattempo con la perdita dei genitori e di suo fratello. Per musicare questo “mondo perduto”, l’artista di Blackpool è tornato agli ascolti della sua adolescenza: Nick Drake, Jimi Hendrix, Tea and Sympathy di Janis Ian, Life On Mars di Bowie, tanto che spesso Smith si è chiesto durante la lavorazione del disco “cosa farebbe David a questo punto?”. Ma a sbloccare questo processo è stato un brano in particolare, l’iniziale Alone, che, ispirata alla poesia Dregs di Ernest Dowson, comincia con il verso “Questa è la fine di ogni canzone che cantiamo”. Si tratta di quasi sette minuti di maestosità, con sintetizzatori nebulosi, una batteria rocciosa e circolare, chitarre aspre e un pianoforte in controluce. Il tempo è sospeso, l’atmosfera rarefatta, la voce di Smith toccante. Aspettare qualche lustro per una gemma che ha il compito di introdurci a un album così disperato e riflessivo, ne è certamente valsa la pena.
Una lucente oscurità
Al suo opposto, i dieci minuti di Endsong fanno calare il sipario su Songs of a Lost World con una spietata considerazione sul concetto di conclusione, quella di un brano, ma anche quella della nostra vita. Prima di questo finale, però, filtra un po’ di luce, come nelle melodie e nel ritmo di A Fragile Thing, o nel testo di And Nothing Is Forever, dove Smith, dopotutto, sembra accettare con serenità lo scorrere del tempo, trovandosi a metà dei suoi sessant’anni. E, in fondo, anche quando l’oscurità si fa più profonda, mantiene sempre la sua lucentezza. Nella densa Warsong la speranza è quella “di ciò che avremmo potuto essere”, mentre le melodie di I Can Never Say Goodbye, il commiato per il fratello del cantante, mantengono intatte il loro fascino. Drone:Nodrone porta i Cure nei territori industrial, All I Ever Am ritorna sul tema della “stanca danza con l’età”.
Songs of a Lost World è probabilmente l’album più introspettivo dei Cure, un gruppo che dopo quattro decenni e quattordici album non ha mai tradito la sua credibilità.
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