Intorno alle inviate di guerra “troppo spesso gira questo pregiudizio: un uomo che prova ad arrivare fino in fondo è coraggioso; una donna, spericolata”. Tuttavia, essere giornalista donna in contesti difficili, di conflitto o culturalmente ostili alle donne, a volte può essere perfino “un vantaggio”. Lo spiega Lucia Goracci, giornalista Rai nata a Orbetello nel 1969, laureata in scienze politiche, che partecipa al “Festival del giornalismo culturale” di Urbino in calendario al Palazzo ducale da venerdì 4 a domenica 6 ottobre e dedicato quest’anno allo “Sguardo femminile”.
Le inviate
La cronista, autrice di notiziari e reportage precisi, puntuali, senza il sovraccarico di un’enfasi inutile né accondiscendenti verso le persone intervistate, nella città urbinate interviene nell’incontro di sabato 5 alle 18 “Tv e social. Le inviate” con altre colleghe e colleghi.
La manifestazione offre ogni anno ottimi spunti e confronti, la dirigono Lella Mazzoli e Giorgio Zanchini, rispettivamente professore emerito di Sociologia della comunicazione dell’Università di Urbino Carlo Bo e giornalista radiofonico e televisivo della Rai; in fondo all’intervista trovate il link al sito del festival inclusi gli appuntamenti del “Festival Off” in più sedi.
Il premio Ilaria Alpi
Goracci, inviata del Tg3, è di casa in Medio Oriente e in scenari di particolare complessità, dalla Siria durante la guerra dell’Isis all’Afghanistan sotto i talebani durante e dopo la smobilitazione delle forze militari occidentali. Nel 2011 ha ricevuto il premio “Ilaria Alpi”. In questa intervista adottiamo il “tu” perché tra giornalisti questa è la prassi.
Goracci, lavorare come inviata in zona di guerra significa affrontare pregiudizi o più rischi rispetto agli uomini?
Dipende dalla realtà raccontata, dal luogo e dal contesto: da quanto sia compromesso lo sguardo sulle donne. Ricordo che, tra i talebani afghani, fece scalpore una mia intervista in cui domandavo a un miliziano perché non mi guardasse in faccia. Replicò “perché lei è una donna”. In altri momenti, invece, da donna ricevi l’aiuto di altre donne. Mi è capitato a piazza Tahrir al Cairo, era il 2012, Mubarak era già caduto. In strada le donne venivano aggredite – si parlò di molestie di regime, quasi a volere ricacciare le donne protagoniste delle rivolte, oltre le pareti domestiche. Io fui soccorsa da una delle ragazze che andavano in piazza con in mano la metà di un limone. Quella volta non dovette proteggermi dai lacrimogeni, ma da giovani davvero aggressivi. In altre occasioni è addirittura un vantaggio.
Un vantaggio? Perché?
Perché consente di accostarti più naturalmente al vissuto, al pudore delle donne vittime di guerra. E c’è un altro aspetto, che invece fa quasi sorridere. A volte noi donne non veniamo prese troppo sul serio e questo ci dà dei margini di manovra. Se vieni percepita come meno insidiosa, incapace di trovare chissà quale segreto tra le linee di un teatro di guerra, capita che i militari ti stiano meno addosso. Ci sono contesti dove la presenza delle donne è concepita come novità. La novità confusa con la naïveté può essere irritante. Ma se serve a farti avanzare anche solo di un checkpoint, tant’è. La nostra meta è sempre la linea del fronte.
Il festival del giornalismo culturale di Urbino in questo 2024 è intitolato allo “sguardo femminile”. Nel giornalismo italiano si può parlare di uno sguardo femminile? Come si distingue?
La prima che viene in mente è Oriana Fallaci. Introdusse un modo di raccontare le guerre dal lato di chi le subisce. Non penso che le donne siano culturalmente o strutturalmente più sensibili degli uomini, però troppo a lungo i conflitti, quando erano solo gli uomini a testimoniarli, sono stati racconto del campo di battaglia. E invece la guerra è quando ti arriva addosso. E, forse, la donna ha un’attitudine più spiccata a mettervi l’accento. E ora siamo tantissime.
Magari siete la maggioranza perché la qualità di un reportage non dipende da essere uomo o donna quanto dalla testata giornalistica, dalla singola persona.
Certo che no. Ma ancora troppo spesso gira questo pregiudizio: un uomo che prova ad arrivare fino in fondo è coraggioso; una donna, spericolata.
In qualche conversazione hai citato Oriana Fallaci (1929-2006) come fonte d’ispirazione: ci sono colleghe o colleghi a cui ti senti più affine?
Leggere Oriana Fallaci ha fatto sicuramente scattare in me la molla del reporter di guerra, già da bambina. E adoro Ryszard Kapuscinski: nella forma del reportage ha sempre raccontato angoli di mondo meno illuminati. Amo un giornalismo che sta dietro all’evento, non occorre esser sempre protagonisti. Si entra nella messa a fuoco nella misura in cui ciò sia funzionale al racconto: se ha senso far vedere che hai freddo anche tu, che devi chinarti per evitare le pallottole, allora va bene perché avvicini il pubblico si avvicina. È chiaro che i giornalisti palestinesi di Gaza non sono meno credibili di noi; ma la forza evocativa, testimoniale della nostra presenza, motiva le campagne per l’accesso della stampa internazionale nella Striscia.
Hai detto che impedire ai giornalisti stranieri di entrare a Gaza da parte del governo di Israele è un atto autoritario, anti democratico, tua madre regalò a te bambina un libro di Oriana Fallaci che per te è stato decisivo. Di quale libro si trattava?
“Niente e così sia” sulla guerra in Vietnam: è sicuramente una pietra miliare, ma mi piacquero più o meno tutti i suoi libri. Ho amato molto “Intervista con la storia”, forse il libro che riprendo in mano più spesso. Ricordo come Golda Meir (1898-1978, premier israeliana dal 1969 al 1974, ndr) raccontasse alla Fallaci la sua difficoltà di essere donna di potere, nel rapporto con il marito. Due donne forti e severe, e la prima che si svelava così emotivamente all’altra. Ecco, al di là dei gesti eclatanti per cui Fallaci è ricordata, come togliersi il velo davanti a Khomeini, sento a me più vicini i suoi momenti introspettivi.
Una volta hai detto che quando si va in una zona di guerra è fondamentale avere i libri giusti nel bagaglio o averli letti. Come mai?
Perché è fondamentale conoscere. Il racconto del giornalista, anche quando è da sintetizzare nel minuto e mezzo della news televisiva, deve avere una profondità, rimandare sempre al contesto storico. Occorre dunque un retroterra di formazione e conoscenza, senza il quale è molto più facile essere irretiti dalla propaganda, che è un compagno di viaggio sempre in agguato. Lo disse alla sua maniera Churchill: “La verità in guerra è così importante che occorre avvolgerla in una cortina di bugie”. E se l’altrui propaganda mi preoccupa, ancora di più temo la nostra: quando ci raccontiamo come le cose dovrebbero essere, pensando che siano vere.
Un giornalista deve avere sempre la forza della terzietà, non sta con nessuno e soprattutto non con la parte al cui fianco è occasionalmente schierato. Troppo spesso assistiamo a un racconto allineato. Che calca la mano sulle brutture dell’altro, mostrandosi reticente con i “nostri”, coloro i quali ci assomigliano di più. Un grave errore.
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